Diario Festival – SoleLuna Vague, Omaggio a Prison Sisters – Dove può fuggire un’onda? – Beatrice Lorenzon
Dove può fuggire un’onda? di Beatrice Lorenzon
La condizione delle donne in Afghanistan è disumana e la libertà è qualcosa di utopico e di irraggiungibile.
Prison sisters di Nima Sarvestani, regista svedese di origini iraniane, prende alla gola e allo stomaco, narrando la storia di due “sorelle di prigione” per le quali il rilascio dal carcere afghano rappresenta l’inizio della vera prigionia cui le condanna la società.
Sarvestani racconta con un linguaggio a tratti molto crudo la storia di due compagne di detenzione focalizzandosi su Sara, ragazza afghana che lotta per la sua libertà.
Dopo il carcere Sara tenta di costruirsi pian piano una vita: sfugge a un tentativo di omicidio da parte dello zio e affronta a testa alta i bisbigli e gli sguardi sprezzanti del suo piccolo villaggio, dove non c’è posto per una ragazza che sogna di poter sposare chi ama e di vivere con dignità.
A darle una possibilità di riscatto è il regista stesso, che si prende cura di lei ospitandola nella sua casa in Svezia dove la voglia di ricominciare si intreccia con il dramma del passato con cui Sara dovrà fare i conti.
Come poter andare a scuola con serenità, sapendo che le sue ex-compagne di cella non possono godere dello stesso privilegio? Come poter imparare ad andare in bicicletta se le donne afghane non sanno nemmeno cosa sia questo strano oggetto con le ruote? Come poter sorridere quando la tua famiglia desidera cancellarti, far sparire di te ogni traccia?
Suggestiva è la scena con gli infiniti tentativi di Sara prima di riuscire a usare la bicicletta: cade infatti più e più volte prima di percorrere il viale di casa senza inciampare, così come si troverà ad affrontare infinite sfide prima di riuscire a trovare il suo posto nel mondo e a rielaborare le tragiche vicende del suo passato che ancora incombono sul presente.
La lotta per la libertà si evince fin dall’inizio, dal momento in cui Sara guardando il mare osserva il movimento delle onde, che rispecchiano il suo stato d’animo: infatti sebbene si infrangano più e più volte sulla battigia rimangono comunque intrappolate all’interno del mare, proprio come Sara che sebbene cerchi di liberarsi dal fardello impostole dall’Afghanistan, anche in Svezia non riesce a lasciarsi alle spalle il suo passato, che continua ad opprimerla. La struttura circolare del film contribuisce a sorprendere lo spettatore: è impossibile non rimanere attoniti di fronte alla conclusione, in cui solo attraverso una scritta sullo schermo si spiega come la vita di Sara abbia cambiato improvvisamente piega, tornando alla condizione di prigionia prima del carcere, di cui parla anche all’inizio della proiezione in un monologo sulla spiaggia.
È proprio l’integrazione, una volta uscita dal carcere a rappresentare la vera sfida per la coraggiosa protagonista che in un monologo afferma: “sono costretta a stare in prigione ma allo stesso tempo è l’unico posto in cui mi sento libera”, lasciando gli spettatori increduli e amareggiati di fronte a questa cruda realtà.
Rispondi